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La bottega del diritto

Il blog che risponde alle vostre tante domande

WhatsApp: la riproduzione fotografica delle conversazioni è pienamente utilizzabile

Carmine Milo No Comments

Con la sentenza n. 1822/20, depositata il 17 gennaio, la VI Sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla difesa dell’imputato T.A. — reo di concorrere nell’illecita detenzione di cocaina e marijuana — sulla specifica eccezione relativa alla nullità e all’inutilizzabilità degli esiti delle comunicazioni telematiche registrate sulla memoria del suo telefono cellulare, acquisite a seguito dell’ispezione compiuta dalla Polizia giudiziaria mediante la riproduzione fotografica della schermata delle comunicazioni intercorse tra l’imputato ed un potenziale acquirente.

Nello specifico, la difesa dell’imputato evidenziava il concretizzarsi di un’ipotesi di inutilizzabilità c.d. patologica, in quanto concernente atti probatori acquisiti contra legem, mediante violenza sulle cose ed in violazione del diritto alla segretezza della corrispondenza di cui all’art. 15 della Costituzione, laddove gli agenti operanti avrebbero dovuto procedere con le modalità previste per il sequestro ai sensi dell’art. 354 c.p.p., comma 2.

Nel rigettare l’eccezione dedotta in appello, la Corte territoriale applicava la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui i dati informatici acquisiti dalla memoria del telefono in uso all’imputato — sms, messaggi whatsApp, messaggi di posta elettronica “scaricati” e/o conservati nella memoria dell’apparecchio cellulare — hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p..

Nella ricostruzione operata in sentenza, i Giudici di legittimità hanno affermato, quindi, che « i messaggi WhatsApp, così come gli sms conservati nella memoria di un apparecchio cellulare, hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p., di tal che la relativa attività acquisitiva non soggiace alle regole stabilite per la corrispondenza, nè tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche, con l’ulteriore conseguenza che detti testi devono ritenersi legittimamente acquisiti ed utilizzabili ai fini della decisione ove ottenuti mediante riproduzione fotografica a cura degli inquirenti ».

Segnatamente, come correttamente postulato dalla Corte territoriale, non è applicabile la disciplina dettata dall’art. 254 c.p.p., in quanto il concetto di corrispondenza implica un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito, né tantomeno poteva ritenersi che si trattasse degli esiti di un’attività di intercettazione, « la quale postula, per sua natura, la captazione di un flusso di comunicazioni in corso, là invece, dove i dati presenti sulla memoria del telefono acquisiti ex post costituiscono mera documentazione di detti flussi ».

In applicazione di tale principio di diritto, ne deriva che i messaggi rinvenuti nella memoria del telefono cellulare dell’imputato risultano, pertanto, essere stati del tutto legittimamente acquisiti al processo ed utilizzati ai fini della decisione, giusta la loro natura documentale ex art. 234 c.p.p. e la conseguente acquisibilità con una qualunque modalità atta alla raccolta del dato, inclusa la riproduzione fotografica.

Violenza domestica: sufficienti le sole dichiarazioni della moglie per condannare il marito!

Carmine Milo No Comments

Con la sentenza n. 28033 del 26 giugno 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un marito, accusato di aver perpetrato lesioni aggravate nei confronti della propria coniuge con un bastone, confermando la penale responsabilità dello stesso e sminuendo le argomentazioni difensive della difesa dell’uomo, secondo le quali la credibilità della moglie era facilmente contestabile per la palese discrasia delle dichiarazioni rese in momenti diversi dalla donna.

Specificamente, secondo la tesi difensiva dell’imputato, la donna, in sede di sommarie informazioni, avrebbe affermato di essere stata colpita da un unico bastone, poi, successivamente, dinanzi al Giudice di prime cure, avrebbe asserito che si trattavano di tre manici di scopa diversi.

Per tali ragioni, la prospettazione difensiva del marito censurava fortemente la credibilità della donna, dimostrando come le dichiarazioni rese dalla stessa non fossero state confortate da alcun riscontro esterno ed, inoltre, in sede dibattimentale, risultavano palesemente sconfessate da altri testi, i quali dichiaravano di non ricordare la presenza degli arnesi.

La Suprema Corte, ribadendo un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha distinto il concetto di credibilità della persona offesa — il cui presupposto è l’attendibilità, riconosciuta, in genere, alle deposizioni rese in dibattimento dal testimone — da quello di attendibilità delle dichiarazioni rilasciate dal chiamato in correità. A differenza del secondo caso, è possibile fondare la responsabilità dell’imputato sulle sole dichiarazioni della persona offesa, quando connotate da credibilità soggettiva e oggettiva, valutabile anche in assenza di ulteriori riscontri.

Sul punto, le Sezioni Unite avevano, tra l’altro, già precisato che le dichiarazioni della persona offesa possono costituire legittimamente l’unica prova a fondamento dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, previa verifica della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto.

Nel caso di specie, la difesa dell’imputato ha totalmente omesso di considerare tali aspetti. La credibilità della persona offesa, pertanto, secondo i giudici di primo e secondo grado, si sarebbe consolidata proprio in virtù del fatto che la stessa non si fosse costituita parte civile né avesse presentato querela, non mostrando, quindi, alcun interesse speculativo alla vicenda, né particolare astio nei confronti del coniuge.

Quanto alle dichiarazioni dei testi, la mera circostanza che questi non avessero ricordato la presenza di un bastone, anche a fronte del considerevole lasso di tempo intercorso tra i fatti e le deposizioni, non è sufficiente ex se ad escludere l’effettivo utilizzo dello stesso, né la credibilità della persona offesa, avvalorata dalle considerazioni sovraesposte.

Avv. Jessica Carrano

 

Omessa manutenzione della strada: condannati i dipendenti della Provincia per la caduta di un ciclista

Carmine Milo No Comments

Con la sentenza n. 26085, depositata il 13 giugno 2019, tre dipendenti della Provincia di Messina venivano condannati per lesioni colpose per aver cagionato danni gravissimi ad un ciclista che percorreva, a bordo della sua bicicletta, una strada panoramica e, all’uscita da una curva, si imbatteva in alcune transenne non previamente segnalate che erano allocate sul margine destro della carreggiata.

I tre imputati – l’esecutore stradale, il collaboratore professionale stradale e l’istruttore direttivo tecnico – venivano considerati responsabili sulla base delle dichiarazioni delle persone presenti ai fatti e degli operatori di polizia giudiziaria intervenuti, nonché sulla base della documentazione acquisita e dei risultati della perizia.

Le risultanze probatorie dei primi due gradi di giudizio convincevano il giudicante che l’incidente si fosse verificato proprio in corrispondenza delle transenne, in un tratto di strada caratterizzato da un restringimento della carreggiata.

Anche nella ricostruzione della Suprema Corte, l’incidente occorso al ciclista – che, a causa delle transenne, quindi, cadeva a terra riportando gravi lesioni al viso – era stato causato proprio da una situazione di pericolo dovuta alla mancata apposizione di adeguata segnaletica atta ad evidenziare quel restringimento.

Ai tre dipendenti della Provincia di Messina veniva, pertanto, addebitata la violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale e, in particolare, il non aver evidenziato la specifica situazione di pericolo per la circolazione.

Segnatamente, veniva ritenuta inadeguata e non idonea sia la segnaletica del limite di velocità di 30 km/h – collocata in prossimità delle transenne – che quella del pericolo generico sito a 320 metri o del cartello “lavori” posizionato a circa un chilometro.

Le motivazioni addotte in sentenza sminuivano le argomentazioni della difesa facenti leva sul concetto di insidia.

In definitiva, secondo la Suprema Corte, l’incidente stradale causato da omessa o insufficiente manutenzione della strada determina la responsabilità del soggetto incaricato del relativo servizio, il quale risponde penalmente della morte o delle lesioni conseguite al sinistro secondo gli ordinari criteri di imputazione della colpa, non solo quando il pericolo determinato dal difetto di manutenzione risulti occulto, configurandosi come insidia o trabocchetto.

Madre condannata al risarcimento del figlio per avergli impedito di vedere il padre

Carmine Milo No Comments

Con ordinanza n. 13400, depositata il 17 maggio 2019, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di una mamma che, contrariamente a specifiche pattuizioni, non consentiva all’altro genitore di vedere il figlio.

Nello specifico, il padre, in due anni e otto mesi, incontrava il figlio solo tre volte, nonostante gli accordi intervenuti tra i genitori che prevedevano una più ampia frequentazione.

I comportamenti ostativi contestati alla ricorrente conducevano alla condanna di un risarcimento in favore del figlio con l’intenzione di censurare proprio la mancata frequentazione tra il padre e il figlio e il ruolo svolto dalla madre.

Segnatamente, già la Corte d’Appello, riformando la decisione del Giudice di primo grado, aveva ampliato le modalità di incontro del padre con il minore, condannando la madre a risarcire ben cinquemila euro al figlio per i danni a lui provocati, in forza dell’art. 709-ter, secondo comma, n. 2, c.p.c., per lesione del diritto alla bigenitorialità a causa del clima di conflittualità esistente tra i coniugi a seguito della separazione.

La madre, ritenendo ingiusto il risarcimento, ricorreva in Cassazione adducendo che era volontà del figlio quella di non voler vedere il genitore o di pretendere la presenza della stessa madre ad ogni incontro con il padre.

Nel considerare infondate le doglianze della ricorrente, la Suprema Corte ha ritenuto comprovato l’atteggiamento ostruzionistico della madre e il condizionamento al corretto svolgimento delle modalità di affidamento del minore, nonché il disagio, le sofferenze e i conflitti derivati al minore dall’atteggiamento della madre.

Occorre rimarcare, altresì, che la Corte ha riconosciuto al giudice la facoltà di applicare le misure previste dall’art. 709-ter c.p.c. nei confronti del genitore resosi gravemente inadempiente o responsabile di atti idonei ad arrecare pregiudizio al minore oppure ad ostacolare il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento.

Secondo i giudici di legittimità, la donna, con il proprio comportamento, ha leso il diritto del figlio ad avere rapporti con entrambi i genitori.

In definitiva, secondo la ricostruzione motivazionale addotta dalla Suprema Corte nell’ordinanza, il genitore che, con atteggiamento ostruzionistico, impedisce all’altro di vedere il figlio, nonostante gli accordi intervenuti prevedano una maggiore frequentazione, incorre inevitabilmente nella condanna al risarcimento del figlio proprio per aver leso il suo diritto alla presenza di entrambi i genitori nella sua vita.

Immissioni rumorose e limite di tollerabilità: una questione sempre attuale!

Carmine Milo No Comments

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28201 del 5 novembre 2018, pronunciandosi su un caso di immissioni rumorose provenienti dall’appartamento sovrastante, ha affermato il principio secondo cui il calcolo del livello di rumorosità debba essere effettuato con apposite indagini che tengano conto della situazione locale, appropriatamente e globalmente considerata.

Nello specifico, la Suprema Corte ha ritenuto viziate le motivazioni giuridiche addotte dalla Corte di appello, considerando non soddisfacenti le risultanze del C.t.u., le quali, sulla scorta dei rilievi fonometrici, si erano limitate ad un calcolo del livello di rumorosità in condizioni di assoluto silenzio e prescindendo dalla rumorosità di fondo della zona in cui era sito l’immobile.

Nella ricostruzione motivazionale addotta in sentenza, i Giudici di legittimità hanno chiarito che nell’indagine sulla rumorosità occorre considerare il complesso dei suoni caratteristici della zona, prescindendo da considerazioni attinenti alle singole persone interessate dalle immissioni.

Su tale scia, infatti, secondo la Corte, “il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile dà luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante della zona, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi”.

Nel caso in oggetto, tenuto conto che il livello di fondo era stato calcolato nel solo ambiente sottostante alla proprietà del ricorrente e in condizioni di assoluto silenzio, prescindendo dalle normali modalità di utilizzo degli immobili e dal livello di rumorosità della zona, correttamente rilevata, la Cassazione, stravolgendo le argomentazioni logico-giuridiche dei Giudici di secondo grado, ha concluso, pertanto, negativamente sull’intollerabilità delle immissioni rumorose.

In definitiva, secondo gli Ermellini – che hanno cassato la sentenza, rinviando ad altra sezione della Corte di appello – la valutazione diretta a stabilire la legittimità dell’immissione dei rumori nei limiti della norma deve essere riferita alla situazione locale, appropriatamente e globalmente considerata.

 

 

 

Accesso ad internet per ragioni extralavorative: è legittimo il licenziamento disciplinare!

Carmine Milo No Comments

Con sentenza del 1° febbraio 2019, n. 3133, la Suprema Corte di Cassazione sancisce la legittimità del licenziamento intimato ad una dipendente per abuso della connessione internet dal pc assegnatole in dotazione dall’azienda.

La lavoratrice – segretaria part time in uno studio medico – viene sorpresa a navigare su internet dal computer aziendale, per fini strettamente personali, non in modo sporadico od eccezionale ma, al contrario, del tutto sistematico: circa 6 mila accessi nel corso di 18 mesi, di cui 4.500 circa su facebook, per durate talora significative.

A fronte di tale condotta, la Suprema Corte conferma la legittimità del recesso datoriale per giustificato motivo soggettivo, valorizzando, specificamente, il profilo della intenzionalità e della reiterazione nell’utilizzo della strumentazione aziendale per fini strettamente personali, contrario alle regole elementari del vivere comune.

La Corte, richiamando precedenti pronunce omogenee, osserva come l’obbligo di diligenza previsto dall’art. 2104 c.c. si sostanzi non solo nell’esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa – diligenza in senso tecnico – ma anche nell’esecuzione di quei comportamenti accessori che si rendano necessari in relazione all’interesse del datore di lavoro ad un’utile prestazione.

Nella ricostruzione operata dai giudici di legittimità, a fronte dell’affermazione in ordine al fatto che la stessa dipendente non abbia negato di avere effettuato la gran parte degli accesi ad internet, la ricorrente, secondo quanto motivato in sentenza, non poteva limitarsi ad una generica replica in senso contrario, ma doveva riportare e trascrivere, nell’ambito argomentativo del ricorso, i passaggi delle difese svolte in sede di merito, in cui le contestazioni da essa mosse erano contenuti.

Nel caso di specie, peraltro, non può ravvisarsi alcuna violazione della normativa sulla privacy atteso che il controricorrente si è limitato a verificare l’esistenza di accessi indebiti alla rete ed i relativi tempi di collegamento, senza compiere alcuna analisi dei siti visitati dal dipendente durante la navigazione o della tipologia dei dati scaricati. Nella lettura sistematica della Corte, appare rimarcare, però, che i dettagli del traffico non costituisconodati personali”, non contenendo alcun riferimento alla persona dell’utente o alle sue scelte, rimanendo, invece, confinati in una sfera estrinseca e quantitativa che è di per sé sovrapponibile, senza alcuna capacità di individuazione, ad un numero indistinto di utenti della rete.

In definitiva, la Suprema Corte, riprendendo un consolidato orientamento giurisprudenziale, puntualizza che non si configurino in alcun modo i presupposti del controllo a distanza della prestazione lavorativa di cui allo Statuto dei Lavoratori, considerato che resta del tutto esclusa dal campo di applicazione della normativa quella attività che sia volta ad individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere l’integrità del patrimonio aziendale.

 

Separazione: nessun assegno di mantenimento in caso di nuova convivenza.

Carmine Milo No Comments

Con la sentenza n. 32871/18, la Suprema Corte di Cassazione respinge il ricorso di una donna nei confronti dell’ex marito stabilendo il principio secondo cui anche in caso di separazione cessa il mantenimento per il coniuge beneficiario che instauri una nuova famiglia di fatto con un’altra persona.

Nella ricostruzione motivazionale operata in sentenza, i Giudici della Prima Sezione, evocando la metamorfosi dell’assetto giurisprudenziale relativo all’assegno divorzile, richiamano il principio di diritto secondo cui la instaurazione, da parte del coniuge divorziato, di una nuova famiglia, ancorché di fatto, fa venire definitivamente meno il presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza ma resta definitivamente escluso.

Secondo la Corte, pertanto, non solo nel caso in cui i due coniugi risultino divorziati ma anche in caso di separazione legale, la formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento opera una rottura tra il preesistente tenore di vita ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costituzionale.

In definitiva, la Corte ritiene che la causa estintiva prevista dalla legge divorzile vada letta estensivamente ricomprendendo in essa non solo il caso di “nuove nozze” ma anche quello della formazione di una famiglia di fatto, per quanto nata da una relazione non formalizzata, ma pur sempre tutelata nel nostro ordinamento sul piano costituzionale.

Il nuovo orientamento si basa sull’affermazione del principio della autoresponsabilità, inteso quale compimento di una scelta consapevole che dà luogo ad una unione personale stabile che comporta, di conseguenza, l’esclusione di ogni residua solidarietà post-matrimoniale con l’altro coniuge, il quale può confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.

Ne deriva, quindi, che la convivenza stabile e continuativa intrapresa con altra persona è suscettibile di comportare la cessazione o la interruzione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento che grava sull’altro ex, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi more uxorio siano messe in comune nell’interesse del nuovo nucleo familiare.

In conclusione, giova rimarcare che il nuovo quadro giurisprudenziale fa salva, però, la facoltà del coniuge richiedente l’assegno di provare che la convivenza di fatto non influisce in melius sulle proprie condizioni economiche e che i propri redditi rimangono inadeguati.

Nessuna demolizione dell’abuso edilizio in caso di particolare tenuità del fatto

Carmine Milo No Comments

Con la sentenza n. 48248, depositata il 23 ottobre 2018, la Corte di Cassazione affronta per la prima volta l’inedito tema del rapporto tra la pronuncia di non punibilità per particolare entità del fatto e l’ordine del giudice penale di demolizione delle opere abusive, affermando l’incompatibilità di tale ordine con l’istituto dell’inoffensività del fatto.

Secondo la Suprema Corte, infatti, con riferimento al reato urbanistico – art. 44 D.p.r. n. 380/2011 – e al reato paesaggistico – art. 181 d.lgs. n. 42/2004 – il giudice che dichiari l’imputato non punibile ex articolo 131-bis del codice penale non può ordinare, rispettivamente, la demolizione delle opere abusive o la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, in quanto non è configurabile il presupposto della sentenza di condanna, malgrado vi sia un accertamento di responsabilità dell’imputato.

Le ragioni poste a fondamento della decisione della Terza Sezione della Cassazione si pongono in perfetta continuità con il consolidato orientamento giurisprudenziale che individua la giustificazione giuridica della sanzione amministrativa ablatoria nell’accessività alla sentenza di condanna.
Di conseguenza, stante anche il tenore delle disposizioni che annettono inequivocabilmente la sanzione ablatoria alla pronuncia di una sentenza di condanna, è irrilevante l’accertamento della commissione dell’abuso paesaggistico o edilizio.

Allo stesso modo, l’ipotesi di estinzione per prescrizione del reato non consente al giudice di impartire l’ordine (amministrativo) di ripristino dello stato dei luoghi, che, invece, va revocato dal giudice dell’impugnazione, ferme restando le competenze dell’autorità amministrativa.

Nella ricostruzione operata in sentenza, quindi, benchè la sentenza di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto implichi un accertamento implicito di responsabilità, non si ritiene configurata la condanna ai fini e per l’applicazione degli ordini amministrativi accessori che, peraltro, il giudice penale impartisce con modalità concorrente con l’autorità amministrativa.

Sul punto, infine, appare opportuno rimarcare che l’incompatibilità con la pronuncia ex art. 131 bis c.p. non vuol dire che l’ordine di demolizione, in quanto tale, rimanga irrimediabilmente precluso dall’intervenuta pronuncia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, perché esso potrà ed anzi dovrà essere irrogato, ricorrendone i presupposti, dall’autorità amministrativa preposta.
Resta fermo, infatti, in ogni caso, l’autonomo potere-dovere in capo alla competente autorità amministrativa di procedere alla demolizione.

Si tratta di una pronuncia che è destinata ad avere rilevanti ricadute nella prassi giudiziaria, anche, e soprattutto, alla luce del fatto che le contravvenzioni edilizie e paesaggistiche sono sempre più frequentemente oggetto di decisioni di non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Separazione: casa affidata al figlio minore e nessun genitore verserà l’assegno di mantenimento.

Carmine Milo No Comments

Storica sentenza del Tribunale di Matera che sancisce di fatto il principio della bigenitorialità perfetta: non era mai accaduto prima che nell’ambito di una separazione tra coniugi la casa di famiglia venisse affidata al figlio minore.

Con il decreto di omologazione emesso dal Tribunale materano è stato stabilito, infatti, che, dopo la separazione, non ci sarà un genitore prevalente sull’altro perché i tempi di frequentazione saranno assolutamente paritetici: il figlio minorenne della coppia rimarrà stabilmente a vivere nel domicilio familiare e i due genitori si alterneranno con una frequenza settimanale all’interno dell’abitazione, in modo da non lasciare mai solo il bambino.

Nella ricostruzione motivazionale della sentenza si legge che « nei periodi di rispettiva permanenza i genitori provvederanno personalmente al mantenimento del figlio »: ad un’equa distribuzione del tempo dedicato al minore corrisponderà anche l’uguaglianza del contributo economico elargito da entrambi i genitori.

Il Tribunale ha stabilito, infatti, che entrambi i genitori — nel caso di specie con redditi equivalenti — dovranno provvedere al mantenimento del figlio minorenne in parti uguali durante il periodo di affido di loro spettanza e che nessuno dei due dovrà versare all’altro coniuge alcun assegno di mantenimento.

La sentenza del Tribunale di Matera apre la strada ai contenuti del decreto legge Pillon — non ancora passato al vaglio delle Camere — sull’assegnazione in tempi simmetrici del figlio ai genitori separati e costituisce, pertanto, un precedente in linea con la proposta di legge che introduce il principio della “bigenitorialità perfetta”, riscrivendo la legge del 2006 sull’affido condiviso dei figli a seguito di separazioni e divorzi.

“Ti faccio vedere io …”: per la Cassazione è impossibile parlare di minaccia!

Carmine Milo No Comments

Con la sentenza n. 53228/2018, depositata il 27 novembre 2018, la Quinta Sezione della Corte di Cassazione è intervenuta per dirimere una questione attinente al reato di minaccia, scaturita da una sentenza emessa dal Giudice di Pace di Udine.

Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte ha sullo sfondo un “rituale” diverbio tra vicini. Nel corso di uno scontro verbale e fisico tra due donne, volano parole grosse e una velata minaccia « Ti faccio vedere io » rivolta da una nei confronti dell’altra.

Secondo quanto motivato in sentenza dal Giudice di Pace di Udine, quella frase incriminata – « Ti faccio vedere io » – è catalogabile come minaccia in piena regola, e quindi sufficiente per una condanna.

Di avviso diametralmente opposto il giudizio della Suprema Corte.

Per i Giudici della Cassazione, infatti, è fondato il motivo di ricorso che denunzia violazione di legge in ordine alla condanna per minaccia, dal momento che il Giudice di pace ha ritenuto dimostrata non già quella indicata nel capo di imputazione (« Stai attenta a dove vai e cosa fai »), ma la diversa espressione « Ti faccio vedere io ».

Nella ricostruzione operata in sentenza, gli Ermellini — applicando un’ottica più moderna — ritengono che le parole su cui si poggia l’ipotetica accusa di « minaccia » sono in realtà « prive di qualsiasi valenza minatoria, neanche larvata », trattandosi di un’espressione generica non evocativa di un male ingiusto per la destinataria.

In definitiva, la Suprema Corte, considerando la frase “Ti faccio vedere io” molto meno grave di quella indicata in origine nel capo d’imputazione, ossia “Stai attenta a dove vai e cosa fai”, ha annullato senza rinvio perché il fatto non sussiste, rimodulando il trattamento sanzionatorio stabilito dal Giudice di pace di Udine.

 

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